Cessione di ramo d'azienda e mancata ricostituzione del rapporto di lavoro

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Illegittima la cessione di un rapporto di lavoro per mezzo del trasferimento d'azienda quando, nonostante l'ordine giudiziale, non era stato precedentemente ricostituito dal datore di lavoro

È illegittima la cessione di un rapporto di lavoro, nell’ambito di una operazione di cessione di ramo di azienda, se tale rapporto (precedentemente già transitato ad altro cessionario nell’ambito di altra e diversa operazione di cessione e la cui illegittimità era stata accertata in giudizio) non era stato concretamente ricostituito.

Così viene stabilito dal Tribunale di Milano con tre "sentenze gemelle", rese in giudizi d'opposizione a decreto ingiuntivo e aventi ad oggetto la debenza delle cd. doppie retribuzioni.

Questi i fatti: alcuni lavoratori, assistiti da Legalilavoro Napoli, impugnavano una cessione di ramo di azienda che aveva riguardato le loro posizioni. I Tribunali di Roma e Napoli accoglievano le domande, dichiarando l’illegittimità dell’operazione e condannando la società cedente al ripristino dei rapporti. Tuttavia la società non dava seguito all’ordine, neppure dopo la messa a disposizione da parte dei lavoratori.

I lavoratori allora chiedevano e ottenevano, a mezzo di ricorso per decreto ingiuntivo, gli importi corrispondenti alle retribuzioni cui avrebbero avuto diritto ove l’opponente avesse ottemperato alla pronunzia di primo grado. Tutto questo sulla scorta del recente e consolidato orientamento della Cassazione (formatosi nel solco di Corte cost. 28 febbraio 2019 n. 29) secondo cui «in caso di cessione di ramo d’azienda dichiarato illegittimo giudizialmente per insussistenza dei presupposti di cui all’articolo 2112 c.c., le retribuzioni corrisposte in seguito dal destinatario della cessione che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa» (Cass. Ss.Uu. 7 febbraio 2018 n. 2990; nel medesimo senso anche Cass. 3 luglio 2019 n. 17785 e Cass. 21 ottobre 2019 n. 26759).

La cedente proponeva opposizione, anche sulla base della carenza di legittimazione passiva, essendo intervenuta ulteriore e diversa operazione societaria di scissione della compagine datoriale, con contestuale cessione alla neo costituita società "beneficiaria" di un ramo di azienda nel cui perimetro sarebbero rientrati i lavoratori (i quali tuttavia, come visto, non erano stati mai reintegrati in servizio).

Con tre decisioni del 13 e 14 aprile 2022 il Tribunale di Milano rigettava le opposizioni e disattendeva tutte le deduzioni svolte dalla società cedente in punto di carenza di legittimazione passiva.

Anzitutto, il Tribunale considera pacifico che la società non abbia mai provveduto a ripristinare il rapporto con il lavoratore: «non l’ha reinserito nel LUL, non ha effettuato le comunicazioni di rito al Centro per l’Impiego, non ha provveduto alle comunicazioni obbligatorie per il ripristino della relativa posizione previdenziale e assicurativa, non lo ha formalmente invitato a prendere servizio, non gli ha assegnato una posizione lavorativa né mansioni specifiche».

Tanto opportunamente rilevato, la conseguenza è che «in questo contesto di reiterato e protratto inadempimento all’ordine giudiziale – al quale [la società] ha inteso resistere in ogni sede [...] – la stessa opponente ritiene di poter disporre di quel medesimo rapporto di lavoro (si ribadisce, mai formalmente ripristinato) rendendolo oggetto del nuovo trasferimento [...] per il sol fatto dell’inserimento di un numero di matricola nell’atto di scissione». Per giunta la società «pretende di ritenere decaduto il lavoratore dall’impugnazione di un trasferimento di azienda [...] del quale [egli] non ha mai potuto avere oggettiva contezza, per non esser mai stato destinatario – a monte – del ripristino del rapporto con la cedente e, ovviamente, dell’assegnazione di una posizione nel compendio ceduto».

Secondo il Tribunale la tesi della società opponente «oltre a risultare priva di qualsivoglia fondamento giuridico, merita altresì la più severa stigmatizzazione». Emerge infatti «l’assoluta contraddittorietà e inconciliabilità delle tesi difensive [...] che, da un lato, ammette di non aver dato esecuzione alla sentenza di ripristino del rapporto di lavoro (rectius, di non averne avuto l’oggettiva possibilità ...), affermando che "al più" sarebbe configurabile a suo carico una mera obbligazione risarcitoria [....] e, dall’altro, assume di poter disporre di quel medesimo rapporto trasferendolo a terzi. Ciò, evidentemente, non può essere».

In definitiva, il principio su cui si fonda la decisione del Tribunale è quello secondo cui «per poter impugnare un atto destinato a produrre efficacia sul rapporto di lavoro, è necessario che il rapporto in questione non sia solo accertato da una sentenza, ma anche ripristinato dal formale datore di lavoro affinché si possa contestare l’assegnazione a uno specifico ramo e/o settore».

Considerata la specularità delle tre decisioni, si riporta in allegato il testo di una soltanto delle "sentenze gemelle".


 a cura di Luca De Simone

Legalilavoro Napoli

(Trib. Milano 14 aprile 2022)

06.07.22
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