Esercizio del potere disciplinare e ricorso ad agenzie investigative

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La rilevanza dei codici deontologici quale limite di utilizzo delle indagini difensive per il tramite di agenzie investigative per l'esercizio del potere disciplinare

Sono inutilizzabili, ai sensi dell’abrogato art. 11, co. 2, d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, i dati raccolti da soggetti i cui nominativi non siano stati espressamente indicati in calce all’atto di conferimento di incarico all’agenzia investigativa da parte del datore di lavoro, se esterni alla organizzazione della agenzia incaricata.

Con le pronunce consultabili in calce si chiude un lungo e complesso giudizio curato da Legalilavoro Napoli in favore di un lavoratore dipendente da una azienda di telecomunicazioni. Il lavoratore era stato licenziato sulla scorta delle risultanze di una agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro.

Al lavoratore era stato intimato il licenziamento per ragioni disciplinari. La contestazione disciplinare aveva ad oggetto la falsa attestazione di tempi e modi di esecuzione delle attività lavorative a lui assegnate "on field", dunque al di fuori dei locali dell’azienda, con analitica indicazione dei giorni e degli episodi contestati.

Il dipendente impugnava il licenziamento, deducendone vari aspetti di nullità (ritorsività del motivo) e di illegittimità (manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso; il fatto rientrava fra le condotte punibili con sanzione conservativa; sproporzione tra infrazione e sanzione).

Il Tribunale di Milano, a conclusione della fase sommaria, accoglieva la domanda principale e ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. L’opposizione proposta dalla società era rigettata ed il datore di lavoro proponeva reclamo, questo accolto dalla Corte d’Appello, la quale respingeva tutte le domande del lavoratore e lo condannava a restituire quanto percepito in esecuzione della sentenza di primo grado. Per quanto rileva in questa sede, la Corte territoriale affermava la legittimità delle indagini investigative, anche sulla scorta di precedente giurisprudenza (Cass. 4670/2019). Una volta ritenuti legittimi i controlli investigativi e quindi utilizzabili i loro esiti, dall’istruttoria svolta era emersa la fondatezza degli addebiti.

Dunque il lavoratore, abusando dell’autonomia organizzativa propria della posizione ricoperta, attestava in maniera non veritiera l’inizio e/o il termine della prestazione giornaliera, facendo così risultare un numero di ore di gran lunga superiore a quelle effettivamente svolte.

Nodo fondamentale della questione è che la lettera di contestazione conteneva, da una parte, gli orari appuntati sul sistema informatico dal lavoratore; dall’altra, quelli effettivamente rilevati dall’investigatore.

Proposto ricorso per Cassazione, la S.C., con la sentenza innanzi richiamata, in accoglimento di due dei motivi di ricorso (con motivazione particolarmente articolata alla cui integrale lettura si fa rinvio) ha anzitutto confermato legittimo il ricorso ai controlli difensivi, svolti a mezzo di impianti tecnologici. Viene esclusa quindi l’applicabilità dell’art. 4 St.lav. qualora i controlli a distanza siano «finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto» (Cass. 25732/2021).

La Cassazione ha precisato che «spetta al datore l'onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico, sia perché solo il predetto sospetto consente l'azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell'art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento» (Cass. 18168/2023).

Venendo al caso di specie, accertata la sussistenza di un “fondato sospetto”, la Corte ha ritenuto di escludere anche l’applicabilità anche degli artt. 2 e 3 Stat.lav., affermando che «le disposizioni dell'art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione» (Cass. 3590/2011).

Dunque «I controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa, riguardanti l'attività lavorativa del prestatore svolta anche al di fuori dei locali aziendali, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti o integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo, non potendo, invece, avere ad oggetto l'adempimento della prestazione lavorativa, in ragione del divieto di cui agli artt. 2 e 3 st.lav.».(Cass. 15094/2018).

Ciò premesso, nello specifico, poi, la S.C. ritiene che l’indicazione del nominativo dei soggetti che in concreto hanno eseguito le indagini, se non riconducibili alla società di investigazione che ha ricevuto l’incarico, è un requisito di validità e di liceità di tali indagini e di utilizzabilità del relativo esito, pur se demandate a soggetto all’uopo dotato delle necessarie autorizzazioni amministrative.

Nel caso di specie, dagli atti del giudizio di primo grado risulta che l’autore materiale del pedinamento dichiarò in sede di deposizione testimoniale di lavorare per un’agenzia diversa da quella che aveva ricevuto l’incarico dal datore di lavoro. Questo fatto è considerato rilevante dalla Cassazione, siccome, pur essendo vero che la società datrice di lavoro aveva prodotto la lettera di incarico ad agenzia investigativa che prevedeva la possibilità di quest’ultima di «avvalersi della collaborazione operativa di agenti della Società XXX [...] mantenendo sempre la governance, il coordinamento operativo e l’attività di reporting finale», era altresì vero che nel medesimo mandato investigativo era previsto che, ai sensi del d.lgs. n. 196/2003, qualora l’agenzia incaricata si fosse avvalsa di altri investigatori privati esterni alla propria struttura, avrebbe dovuto indicare i relativi nominativi in calce all’atto di incarico. Invece, l’indicazione dei nominativi degli investigatori che effettivamente avevano condotto gli accertamenti sulla persona del lavoratore, nel caso di specie, era mancata sia ab origine, sia ex post in calce al mandato ricevuto.

Una tale mancanza, a giudizio della Corte di Cassazione, inficia il mandato e comporta, di conseguenza, l’inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003 (applicabile ratione temporis), dei dati raccolti da soggetti non legittimati a farlo. In tal senso depone l’autorizzazione del Garante privacy 15 dicembre 2016 n. 6, in cui è previsto che «l’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e non può avvalersi di altri investigatori non indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico».

Più in generale, l’art. 8, co. 4, del provvedimento del Garante 6 novembre 2008 n. 60, sulle regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, dispone che «l’investigatore privato deve eseguire personalmente l'incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell´incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell´atto di incarico. Restano ferme le prescrizioni relative al trattamento dei dati sensibili contenute in atti autorizzativi del Garante».

Interessante inciso, poi, è compiuto dalla Cassazione sulla valenza “normativa” delle prescrizioni contenute nei codici deontologici. Essa è conferita dall’art. 12 d.lgs. 196/2003, che ne prevede anche un regime di pubblicità sulla Gazzetta Ufficiale e prescrive il relativo rispetto come «condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali effettuato da soggetti privati e pubblici». La qualificazione giuridica in termini di “illiceità” del trattamento qualora non rispettoso delle regole conformative dettate dai predetti codici, infatti, implica necessariamente la natura normativa (e inderogabile) della fonte violata. Medesima forza normativa che ora è riconosciuta ai predetti codici dall’art. 2-quater, co. 4, d.lgs. 196/2003 introdotto dal d.lgs. 101/2018 contenente disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (Regolamento generale sulla protezione dei dati o Gdpr).

Dall’art. 12 d.lgs. 196/2003 – e oggi dall’art. 2 quater, co. 4 del medesimo decreto legislativo – si desume allora la natura normativa di tali codici, che vanno qualificati esattamente come “fonti normative integrative” (Cass. 12834/2014, in materia di conflitto tra riservatezza, attività giornalistica e diritto di cronaca “fotografica”).

Ne consegue che per tali codici vale il principio iura novit curia, sicché il giudice deve individuarli e farne applicazione a prescindere dalla loro invocazione dalla parte interessata. Ulteriore conseguenza è la loro invocabilità con ricorso per cassazione sub specie di “violazione o falsa applicazione di norma di diritto”, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.

Sul piano delle conseguenze, la violazione di tali codici determina l’inutilizzabilità dei dati in tal modo raccolti. In tal senso dispone l’art. 11, co. 2, d.lgs. n. 196/2003, vigente ratione temporis: «I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati». Ne consegue che sul piano processuale tale norma preclude non solo alle parti di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova, ma pure al giudice di fondare il proprio convincimento su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici.

Da qui il rinvio alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, con prescrizione di attenersi ai seguenti principi di diritto:

  1. I codici deontologici di cui al d.lgs. n 196/2003 hanno natura normativa e pertanto possono e devono essere individuati ed applicati anche d’ufficio dal giudice (iura novit curia).
  2. La violazione dei predetti codici deontologici può essere fatta valere con ricorso per cassazione ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. e determina l’inutilizzabilità dei dati così raccolti.
  3. L’inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione dei codici deontologici di cui al d.lgs. n. 196/2003, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 101/2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede sia processuale che extraprocessuale.
  4. Tale inutilizzabilità “assoluta” determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di porli a fondamento di una contestazione disciplinare e poi di produrli in giudizio come mezzo di prova, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione.

E la Corte d'appello, nel chiudere il cerchio, non ha potuto fare a meno di ritenere che «nella fattispecie non appare allora seriamente contestabile, ad avviso del Collegio, che le risultanze dei dati della relazione investigativa ritenuti inutilizzabili dalla sentenza di rinvio della Corte di Cassazione costituissero il fondamento della contestazione disciplinate mossa a Garavaglia per ravvisare e contestare la non veridicità dei dati dichiarati dal lavoratore nel sistema WMF nei giorni e negli orari specificati nella contestazione», dichiarando dunque l’illegittimità dell’impugnato licenziamento e condannando il datore di lavoro, ex art. 18 , comma 4 l.300/1970, a reintegrare il lavoratore e a versargli una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.


a cura di Luca De Simone
Legalilavoro Napoli

(Cass. 11 ottobre 2023 n. 28378 e A. Milano 8 luglio 2024)

03.11.24
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