Interposizione di manodopera a seguito di cessione di ramo d'azienda

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Termini di decadenza per impugnare l'illegittimità dell'appalto e limiti al potere conformativo della committenza (in particolare negli appalti labour intensive)

La Corte di Cassazione è tornata a occuparsi della interposizione di manodopera, ribadendo alcuni principi ormai acquisiti in una fattispecie in cui un noto istituto bancario (nella veste di committente) ed una società appaltatrice avevano impugnato una sentenza resa dalla Corte di Appello di Firenze. La pronuncia di appello aveva infatti dichiarato l’illegittimità dell’appalto di manodopera tra di due soggetti, con conseguente declaratoria del diritto dei lavoratori ricorrenti, assistiti da Legalilavoro Napoli, alla costituzione di un rapporto di lavoro proprio in capo alla banca.

È da precisare che l’appalto di cui trattasi era stato formalizzato contestualmente alla cessione, da parte del committente all’appaltatore, di un ramo di azienda ex art. 2112 i cui dipendenti erano poi stati allocati proprio sulla commessa portata all’attenzione dei giudici. I lavoratori controricorrenti erano tra quelli che non avevano impugnato la cessione (comunque dichiarata illegittima), proponendo successivamente l’azione di impugnativa del contratto di appalto.

La pronuncia in commento si sofferma su diversi aspetti della fattispecie al suo vaglio, dando continuità ai vari orientamenti seguiti dalla Suprema Corte. Nel caso in esame, anzitutto, la Corte rigetta il motivo di ricorso per avere la Corte d’Appello di Firenze ritenuto che il termine per impugnare l’appalto decorra dalla cessazione dell’utilizzazione dell’attività dei lavoratori da parte del committente e non già dall’inizio dell’appalto. La Cassazione ribadisce invece il principio della non applicabilità del termine di cui all'art. 32 del "Collegato lavoro" ai casi in cui il lavoratore agisca per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato in capo al committente. In particolare la Corte, rifacendosi ai suoi precedenti sul punto, osserva come «il doppio termine di decadenza dall'impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 2, della l. n. 604 del 1966 e 32, comma 4, lett. d), della l. n. 183 del 2010, non si applica all'azione del lavoratore – ancora formalmente inquadrato come dipendente di un appaltatore – intesa a ottenere, in base all'asserita illiceità dell'appalto in quanto di mera manodopera, l'accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente, in assenza di una comunicazione scritta equipollente a un atto di recesso». Soggiunge la Cassazione che «non può essere considerato atto equipollente al recesso dal rapporto la comunicazione iniziale al lavoratore del trasferimento del rapporto ad altro datore di lavoro, atteso che l’eventuale illiceità dell’appalto non può che essere verificata nella concretezza del suo svolgimento». Dunque, la comunicazione di trasferimento ex art. 2112 c.c. non costituisce atto idoneo ai fini del decorso del termine decadenziale del Collegato poiché, nel momento della ricezione, il contratto di appalto non ha avuto evidentemente ancora concreta esecuzione e, dunque, la liceità o meno non può essere ancora valutata.

Quanto agli indici oggetto di disamina al fine del vaglio di liceità dell’appalto, la S.C. ribadisce che dal combinato disposto dell'art. 1655 c.c. e dell'art. 29, d.lgs. 276/2003 va dedotto che, ai fini della liceità dell’appalto di opere o di servizi, è necessaria la sussistenza di entrambi i requisiti costitutivi del contratto. Requisiti rappresentati, da una parte, dall’organizzazione autonoma e dal rischio di impresa (necessari ai fini all’esistenza dell’impresa appaltatrice e dell’azienda a monte); e, dall’altra parte, dell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto «di modo che la mancanza anche soltanto di uno dei due elementi in discorso (organizzazione di impresa con assunzione del rischio economico o direzione autonoma del personale) genera il risultato vietato dalla legge».

La Corte si sofferma su un aspetto particolare: seppur il caso di specie non riguardi una ipotesi di appalto ad alta intensità di manodopera (c.d. labour intensive), la Cassazione coglie comunque l’occasione per ricordare che negli appalti ad alta intensità di manodopera è necessario verificare che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo o organizzativo sia interamente affidato al formale committente. Una osservazione certamente non nuova ma che risulta, a giudizio di chi scrive, particolarmente pregnante a motivo del crescente numero di appalti labour intensive: tale vaglio è dunque aspetto sempre più decisivo per la risoluzione delle controversie in materia di interposizione illecita di manodopera.

Ancorché in via incidentale ed al fine di escludere dal suo vaglio questioni di merito, la S.C. si sofferma anche sull’aspetto del potere conformativo del committente, inteso come facoltà di individuazione della prestazione esigibile tra quelle contrattualmente dovute. E precisa che spetta ai giudici del merito, sulla base dell’apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto acquisite al giudizio, valutare se tale potere, pur compatibile con un appalto lecito, sia "tracimato" invece in un potere direttivo e di controllo del lavoro altrui, espressione di un appalto vietato.

La Cassazione ha anche modo di esprimere il consolidato principio secondo il quale la mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia; in altri termini, ove la prova non ammessa, ovvero non esaminata in concreto, sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (così anche Cass. 11457/2007, Cass. 4369/2009, Cass. 5377/2011, Cass. 16214/2019). Dunque, la mancata ammissione dei mezzi istruttori può essere vagliata dalla Cassazione solo ove la stessa ha (verrebbe da dire, ictu oculi) cagionato la formazione di un convincimento che certamente sarebbe stato diverso in caso di ammissione.


a cura di Luca De Simone
Legalilavoro Napoli

(Cass. 13812/2024)

04.07.24
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