Aggiornamenti
Lo stabilisce il Tribunale di Milano in un recente giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, consultabile in calce, avente ad oggetto la debenza delle c.d. "doppie retribuzioni". Il medesimo Tribunale, il medesimo giorno, pubblica anche altre due sentenze "gemelle" che riguardano colleghi nella medesima situazione del lavoratore parte resistente nella pronuncia qui pubblicata.
Un gruppo di lavoratori, assistiti da Legalilavoro Napoli, a seguito di subentro di altra società in un appalto di servizi, veniva escluso dal passaggio al nuovo appaltatore, in spregio della clausola sociale che avrebbe dovuto operare nel caso di specie. Pertanto chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Milano una pronuncia costitutiva di rapporto di lavoro. Data l'inottemperanza del nuovo appaltatore a tale sentenza, i lavoratori richiedevano ed ottenevano, a mezzo di ricorsi per decreti ingiuntivi, gli importi corrispondenti alle retribuzioni cui avrebbero avuto diritto ove l’opponente avesse concretamente ottemperato alla ricostituzione del rapporto.
Il datore di lavoro opponeva i decreti ingiuntivi deducendo, tra l’altro, che il rapporto di lavoro dei ricorrenti con l’appaltatore uscente fosse ancora in essere; con la conseguenza che non si potesse applicare la giurisprudenza recentemente formatasi e già consolidatasi in tema di doppia retribuzione. Sosteneva parte opponente che le pronunce rese in merito (con particolare riferimento a Cass. Ss.Uu. 7 febbraio 2018, n. 2990 e a Corte cost. 28 febbraio 2019, n. 29) concludevano per la natura retributiva e non risarcitoria delle somme vantabili mensilmente dai lavoratori, non reintegrati in servizio a seguito di pronuncia giudiziale, solo nei casi di cessione di ramo di azienda dichiarata giudizialmente illegittima e di interposizione illecita di manodopera. Circonstanza che non avrebbe nulla a che vedere, dunque, con il caso di applicazione della clausola sociale.
Con le sentenze in commento il Tribunale di Milano rigetta invece le opposizioni e disattende tutte le deduzioni svolte dalla Società opponente. Osserva, tra l’altro, che risulta pacifico come la società cedente «non abbia mai provveduto a ripristinare il rapporto di lavoro: [non ha inserito il lavoratore] nel LUL, non ha effettuato le comunicazioni di rito al centro per l'Impiego, non ha provveduto alle comunicazioni obbligatorie per il ripristino della relativa posizione previdenziale e assicurativa, non lo ha formalmente invitato a prendere servizio, non gli ha assegnato una posizione lavorativa né mansioni specifiche».
Tanto opportunamente rilevato, la conseguenza è che «in questo contesto di reiterato e protratto inadempimento all’ordine giudiziale – al quale (la Società) ha inteso resistere in ogni sede (non solo promuovendo l’appello avverso le sentenze sulla cessione [...], ma altresì resistendo a fronte delle iniziative monitorie dei lavoratori a suo tempo ceduti) – la stessa opponente ritiene di poter disporre di quel medesimo rapporto di lavoro (si ribadisce, mai formalmente ripristinato) rendendolo oggetto del nuovo trasferimento [...] per il sol fatto dell’inserimento di un numero di matricola nell’atto di scissione».
Prosegue il giudice osservando che non avendo mai provveduto al ripristino del rapporto, e quindi al reinserimento dei lavoratori nell’organizzazione aziendale con assegnazione di una specifica posizione lavorativa, la Società «pretende di ritenere decaduto il lavoratore dall’impugnazione di un trasferimento di azienda [...] del quale non ha mai potuto avere oggettiva contezza, per non esser mai stato destinatario – a monte – del ripristino del rapporto con la cedente e, ovviamente, dell’assegnazione di una posizione nel compendio ceduto».
Secondo il giudice, addirittura, la tesi della Società opponente «merita altresì la più severa stigmatizzazione». Deve infatti essere «censurata la condotta – anche processuale – di un’azienda che, da un lato, resta risolutamente inadempiente al decisum e, dall’altro, pretende di avvalersene per porre in essere un’operazione traslativa che avrebbe il sostanziale effetto di neutralizzare – per sé soltanto – gli effetti della medesima pronunzia giudiziale».
Emerge in questo modo l’assoluta "contraddittorietà e inconciliabilità" delle tesi difensive della Società «che, da un lato, ammette di non aver dato esecuzione alla sentenza di ripristino del rapporto di lavoro (rectius, di non averne avuto l’oggettiva possibilità ...), affermando che “al più” sarebbe configurabile a suo carico una mera obbligazione risarcitoria [...] e, dall’altro, assume di poter disporre di quel medesimo rapporto trasferendolo a terzi». Ma quando sostenuto dalla Società non è convincente: essendo «pacifica in giudizio l’inottemperanza alla sentenza del Tribunale di Napoli del 10 luglio 2019, n. 5129 [...] non può che concludersi per l’assoluta estraneità della posizione [della Società] rispetto alla vicenda traslativa».
In definitiva, il significativo e convincente principio su cui si fonda la decisione del Tribunale è che «per poter impugnare un atto destinato a produrre efficacia sul rapporto di lavoro, è necessario che il rapporto in questione non sia solo accertato da una sentenza, ma anche ripristinato dal formale datore di lavoro affinché si possa contestare l’assegnazione a uno specifico ramo e/o settore».
Si rilevano altre pronunce dello stesso foro meneghino che già in precedenza si erano poste nel medesimo solco (v. ad es. Trib. Milano 26 aprile 2022).
a cura di Luca De Simone
Legalilavoro Napoli
(Trib. Milano 1 dicembre 2022)
Parole chiave: Esternalizzazioni e appalti , Retribuzioni , trasferimento d'azienda