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Il Tribunale di Modena, nell’ordinanza del 5 luglio 2021 consultabile in calce a questo contributo, accoglie le argomentazioni della difesa della lavoratrice, citata in giudizio dalla datrice di lavoro per far accertare la legittimità del licenziamento per giusta causa. Il giudice, nell’annullare il licenziamento, ha considerato del tutto irrilevante sul piano disciplinare la condotta della lavoratrice che, pur avendo integrato la fattispecie di reato di diffamazione aggravata dall’utilizzo del mezzo web previsto e punito all’art. 595, comma 3, c.p., è da reputarsi senza ombra di dubbio extra-lavorativa, poiché afferente alla dimensione della sua vita personale e privata. In altre parole, trattasi di condotta non idonea a scalfire quel vincolo fiduciario posto a base del rapporto di lavoro né, quindi, tantomeno a reciderlo.
Aderendo all’orientamento consolidato della Cassazione per cui, in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato che dà diritto alla tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, St.lav. comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, il giudice ha escluso che il fatto addebitato alla lavoratrice, pur poco edificante dal punto di vista etico, abbia potuto avere un collegamento così stretto con il rapporto di lavoro, tale da incidere sulla funzionalità del rapporto stesso.
Da un lato, è vero che anche la condotta illecita extra-lavorativa può essere suscettibile di avere un rilievo disciplinare, essendo il lavoratore sempre tenuto, quale obbligo accessorio a quello di fornire la prestazione richiesta, a non tenere fuori dall’ambito lavorativo comportamenti che possano ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro; dall’altro, però, è pur vero che una valutazione di concreta incidenza della condotta posta in essere al di fuori del contesto lavorativo sulla funzionalità del rapporto di lavoro e sul vincolo fiduciario deve pur essere condotta non solo astrattamente, ma anche dal punto di vista sostanziale. È doverosa, in questo senso, una doppia valutazione. Prima di tutto sull’incidenza di quella condotta sul rapporto di lavoro, in modo da poter determinare se davvero ne comporti una compromissione tale da fondare, e non solo da far meramente presumere, l’insorgenza di un concreto timore, nel datore di lavoro, di un successivo inadempimento da parte del lavoratore. In secondo luogo, stabiliti il nesso tra condotta extra-lavorativa e risvolto della stessa impattante in maniera negativa sul rapporto di lavoro, occorre definire, in termini di gravità, se effettivamente quella condotta sia tale da ledere il vincolo fiduciario irrimediabilmente e se possa davvero aver influito sulla valutazione, da parte datoriale, della capacità del lavoratore di assolvere alla sua prestazione. In altri termini, il vincolo non potrà rescindersi se, in base a un giudizio prognostico condotto ex ante, non vi sia fondato motivo di ritenere che il lavoratore potrà rendersi autore di futuri inadempimenti dell’obbligazione lavorativa. Una regola che vale, in definitiva, in ogni rapporto obbligatorio caratterizzato dalla corrispettività.
La pronuncia del resto è in linea con una recente decisione della Suprema Corte (Cass. 8390/2019): nel decidere un caso simile, in cui il lavoratore era stato condannato per minaccia grave in danno di un terzo estraneo al rapporto di lavoro, ha puntualizzato che la condotta del lavoratore, avvenuta al di fuori del contesto lavorativo, non era di per sé idonea a incidere intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente nei confronti del suo superiore, né a far presumere un possibile inadempimento lavorativo nel futuro. La condotta non si era, inoltre, rivelata incompatibile con la permanenza di quel vincolo fiduciario sul quale il rapporto di lavoro si fonda e non era nemmeno possibile considerarla come portatrice di una capacità gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile tale da costituire giusta causa di licenziamento.
Preme puntualizzare in questa sede come, in definitiva, il focus del datore di lavoro, nonché il suo giudizio sull’operato del dipendente, non può e non debba mai trascendere una valutazione sulla sua prestazione lavorativa o sul comportamento da lui tenuto in ambito lavorativo per poi sconfinare in valutazioni etiche o morali di comportamenti extra-lavorativi. Anche se non edificanti, le condotte tenute dal lavoratore afferenti la sua vita personale e privata non possono costituire oggetto di giudizio da parte del datore di lavoro, che deve marginalizzare la propria indagine, dirigendola unicamente alla valutazione del rapporto lavorativo e al corretto adempimento della prestazione in esso dedotta.
Dunque, ciò che deve interessare al datore rimane comunque l’esatta esecuzione della prestazione.
In quest’ottica, diventa davvero possibile catalogare un comportamento come extra-lavorativo sia nel senso stretto del termine, ovvero come quel comportamento posto in essere al di fuori dell’ambiente di lavoro o nei confronti di terzi estranei al contesto lavorativo, ma anche nel suo senso più lato, ovvero come comportamento che non ha incidenza, né risvolti, né collegamento alcuno con il corretto svolgimento degli obblighi (materiali o morali) che il lavoratore è chiamato ad adempiere nello svolgimento delle sue mansioni.
In questo modo il bilanciamento tra interessi, del lavoratore da un lato e di parte datoriale dall’altro, è ampiamente garantito. Posto che il primo non subisce intromissioni nella propria sfera privata che possano dispiegare ripercussioni anche in quella professionale, finanche arrivare a mettere in discussione il posto di lavoro; e, invece, le valutazioni del secondo sul comportamento extra-lavorativo del lavoratore riacquistano rilevanza giuridica e, quindi, anche rilievo sul piano disciplinare, quando detto comportamento, pur posto in essere al di fuori dei luoghi e del contesto di lavoro, assuma una gravità tale da porsi in contrasto con i valori più alti dell’ordinamento giuridico nel suo complesso: in altre parole, quando la condotta del lavoratore si estrinseca in comportamenti che compromettono il rapporto di lavoro secondo gli standards, conformi ai valori ordinamentali, esistenti nella realtà sociale.
Un principio di proporzionalità e di gradazione deve essere adottato, infine, con riguardo ai vari casi di specie che possono presentarsi: è chiaro che una medesima condotta può assumere maggiore o minore gravità (e quindi avere più o meno incidenza sul rapporto di fiducia tra datore e lavoratore, o non averne affatto) a seconda del ruolo ricoperto e/o della funzione svolta dal lavoratore che la pone in essere. È di tutta evidenza (lo rileva anche il giudice del Tribunale di Modena) che argomentazioni di parte datoriale che pretendono di addebitare alla condotta extra-lavorativa del dipendente un danno all’immagine arrecato all’intera azienda risultano essere meramente enfatiche e prive di sostanziale fondamento, laddove siano addotte a prescindere da una qualsivoglia valutazione della condotta del dipendente posta in relazione con la posizione da costui ricoperta all’interno del consesso lavorativo.
contributo a cura di Matilde Rosati, Legalilavoro Firenze
(Trib. Modena 5 luglio 2021)
Parole chiave: Lavoro e vita privata , Licenziamenti , potere disciplinare