Quando le assenze per malattia professionale non sono conputabili per il comporto

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Qualora il datore di lavoro non abbia assolto all'obbligo di formazione dei lavoratori in materia di salute e sicurezza le assenze per malattia professionale non possono essere computate ai fini del termine di comporto ex art. 2110 c.c.

La Corte d’appello di Messina con l’articolata e recente sentenza consultabile in calce, ha statuito che «l'assolvimento dell'obbligo di informazione non surroga quello di formazione», così concludendo per la sussistenza di responsabilità datoriale ex art. 2087 cc. nella causazione della malattia professionale patita dalla
lavoratrice cui non è stata fornita adeguata formazione sui rischi lavorativi. Per giungere a tale soluzione la Corte sottolinea che occorre distinguere tra obbligo di formazione e informazione del lavoratore ai sensi dell'art. 2, d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (testo unico materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro): laddove «la prima (lett. aa) è il processo educativo necessario per acquisire le competenze per lo svolgimento in sicurezza delle mansioni identificando, riducendo e gestendo i rischi, la seconda (lett. bb) è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla gestione, riduzione e gestione dei rischi»).
La Corte ha precisato che «l'adempimento dell'obbligazione formativa avrebbe quantomeno reso più remota l'eventualità, poi verificatasi, che la lavoratrice, in vista anche di un malinteso senso del dovere, tacesse le condizioni di rischio fino all'insorgere della patologia», ciò in quanto anche il possesso di un proprio bagaglio personale di conoscenze, da parte della lavoratrice, non rileva quale esimente della responsabilità datoriale, posto che, come da principio codificato dai giudici di legittimità (Cass. 8988/2020), quando risulti che il datore di lavoro abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi, persino l'eventuale condotta imprudente del lavoratore degrada a mera occasione dell'infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante.

La Corte messinese, conclude, quindi, affermando essere «altamente presumibile [che la lavoratrice] se adeguatamente formata, non sarebbe andata incontro
all'intervento, o avrebbe quantomeno avuto un decorso più breve e meno accidentato, riducendo così il numero di giornate di malattia e rientrando nel limite complessivo di 180 nel triennio»; la violazione dell'art. 2087 c.c. è stata perciò «perpetrata, ed ha efficacia causale rispetto all'insorgenza della patologia nei termini e nei tempi accertati».

La conclusione cui giunge il Collegio è che «le giornate di malattia connesse alla sindrome non possono pertanto essere computate ai
fini del comporto» con conseguente dichiarazione di illegittimità del licenziamento.


a cura di Maria Grazia Belfiore

Legalilavoro Messina

(A. Messina 14 giugno 2023)

13.07.23
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