Riformata la sentenza di primo grado sui “riders” di Foodora

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Per la Corte d'appello di Torino sono collaborazioni etero-organizzate

La Corte d’Appello di Torino interviene nel contenzioso sulla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro dei “riders”, segnando un primo punto a favore delle azioni dei lavoratori che consegnano il cibo (o altro) sulla base delle “app” e dei logaritmi gestiti da imprese come Foodora (la protagonista del contenzioso di Torino), e altre.

Dalla qualificazione del rapporto, come è evidente, discendono importanti conseguenze in termini di diritti del lavoratore, riconducibili all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato o a quella (molto meno tutelante) del lavoro autonomo, sia sul piano economico e normativo sia su altri non meno importanti, come quello della sicurezza e delle prestazioni sociali.

Il tema, peraltro, è connesso al dibattito sull’inquadramento giuridico di tutte le figure emerse ed emergenti nei nuovi modelli di organizzazione produttiva (che si tratti di “gig economy”, di organizzazione affidata ai logaritmi o all’intelligenza artificiale, ecc.) ed è discussa dalle corti di molti paesi, dal Regno Unito al Brasile, dalle corti statunitensi alla Francia… (si pensi ai casi degli autisti di Uber, Lyft e altre).

Ad oggi erano note due sole pronunce italiane: quella del Tribunale di Torino oggetto dell’appello (sentenza n. 778/2018 del 7.5.2018, caso Foodora) e quella del Tribunale di Milano n. 1853/2018 del 10.9.2018 (caso Foodinho), entrambe di carattere negativo. I giudici di primo grado avevano ritenuto che al rapporto del driver non potessero applicarsi i criteri classici della qualificazione del rapporto come subordinato, soprattutto in forza della possibilità per il collaboratore di non dare la disponibilità al lavoro e di non effettuare la singola prestazione (ma anche dando una certa lettura al ruolo delle app, alle modalità concrete di lavoro, ecc.).

Entrambe, però, avevano anche negato la possibilità di inquadrare queste fattispecie nell’ipotesi prevista dall’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, ovvero la norma del Jobs Act che estendeva le tutele del lavoro subordinato alle collaborazioni continuative caratterizzate da un inserimento stabile nell’organizzazione del committente, ovvero le c.d. collaborazioni “etero-organizzate” (temi sui quali c’è ampia discussione tra i teorici della materia). La norma infatti prevede che la disciplina del lavoro dipendente si applichi anche ai “rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Di tale disposizione il Tribunale di Torino aveva dato una lettura molto (troppo) riduttiva, oltre che poco argomentata, accogliendo la tesi sostenuta tra gli studiosi soprattutto dal prof. Paolo Tosi (che è anche uno dei difensori di Foodora nel contenzioso): ovvero che si tratti di una disposizione che non avrebbe capacità di allargare effettivamente l’area di applicazione della disciplina del lavoro subordinato, appoggiandosi su criteri che sostanzialmente nulla aggiungerebbero a quelli classici (una “fattispecie apparente”, secondo la definizione dello studioso citato).

Su questa parte della sentenza di primo grado, molto discussa tra i commentatori, sembra essersi sviluppata la critica demolitoria della corte d’appello, che nel dispositivo riconosce ai lavoratori ricorrenti i trattamenti dovuti sulla base del contratto collettivo della logistica, proprio invocando l’art. 2 del decreto 81. Una pronuncia che certamente riaprirà il dibattito (e ciò in attesa di sviluppi sul terreno delle tutele legislative che, dopo il battage scatenato dal Ministro Di Maio nell’estate scorsa, e dopo la circolazione di una bozza di riforma anch’essa molto discussa, sembra essere rientrata in un limbo dai destini non chiari).

(a cura di F. Scarpelli)


12.01.19
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