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La conseguenza è che il dipendente di un istituto di credito non deve restituire quanto percepito durante il periodo di sospensione. È quanto stabilito dalla Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un ricorso promosso da Legalilavoro. Secondo la Suprema Corte la disciplina dell’art. 1, comma 41, l. 92/2012, in forza della quale il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare retroagisce al momento dell’avvio del procedimento disciplinare stesso, non può trovare applicazione nel caso in cui il procedimento sia stato avviato prima dell’entrata in vigore della legge (ovvero prima del 18 luglio 2012).
L'assistita di Legalilavoro, ex dipendente di un noto istituto creditizio, ha subito un procedimento disciplinare avviato prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero. Procedimento prima sospeso per circa 6 anni, nel corso dei quali, in forza delle previsioni dell’art 37 del Ccnl, aveva continuato a percepire la retribuzione e maturare il diritto alla pensione; procedimento poi riavviato e concluso a fine 2018 con l’adozione di un licenziamento per giusta causa, i cui effetti sono stati fatti retroagire al 2012, e dunque dall'inizio del procedimento.
I giudici di merito sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità della retroattività, che aveva anche avuto come effetto quello della richiesta restitutoria di quanto percepito dalla ex dipendente durante i 6 anni in cui per scelta datoriale ella era rimasta sospesa dal servizio. In primo come in secondo grado i giudici non hanno accolto le lamentele della lavoratrice, ritenendo che l'applicazione retroattiva degli effetti fosse legittima.
La Corte di Cassazione ha invece sposato in toto la linea difensiva di Legalilavoro. Con una pronuncia che non ha precedenti ha affermato che, per stabilire se gli effetti previsti dal comma 41 (retroattività del licenziamento) possano trovare efficacia in un caso concreto, occorre verificare se la legge era vigente al momento dell’apertura del procedimento disciplinare. Trattasi infatti di effetti che «vanno ad incidere sulla condizione del lavoratore sin da quel momento e che necessitano, pertanto, di essere noti e considerati nel contraddittorio che il procedimento instaura».
La Suprema Corte, poi, accogliendo l’ulteriore censura alla sentenza della Corte di Appello di Roma, ha altresì affermato che l’art. 37 Ccnl istituti di credito deve essere interpretato nel senso che il datore di lavoro non gode di un potere potestativo finalizzato a sospendere il sinallagma funzionale del rapporto di lavoro. Pertanto, essendo una mera scelta datoriale di opportunità, quella di rinunciare ad avvalersi della prestazione lavorativa, alla lavoratrice spetta comunque la retribuzione.
a cura di Floriana Nasso
Legalilavoro Roma
(Cass. 21 febbraio 2025 n. 4655)
Parole chiave: Licenziamenti , Retribuzioni